Per il decreto Irpef, oggi in esame, occorre dire che il dibattito è avvenuto in larga parte nelle scorse settimane.
Non si possono dire molte cose nuove, se non del buon lavoro fatto in commissione e partire dal giudizio che gli italiani hanno potuto esprimere contro le critiche e i pregiudizi iniziali, nel voto di domenica 25 maggio.
Un consenso che ha cancellato i dubbi sulla credibilità e sull’apprezzamento di un decreto che rappresenta concretamente l’atto più rappresentativo e significativo di questa fase di avvio del nuovo governo.
È un atto rappresentativo perché nella sua decisione fondamentale, la riduzione del cuneo fiscale (per il rilancio dell’economia) va nella direzione auspicata da sempre in sede europea come strumento di rilancio della fiducia e dei consumi.
Una riduzione finalmente in una dimensione significativa e visibile per ogni cittadino che ne beneficia.
Significativa alle condizioni date, significativa per le dimensioni che hanno sorpassato di slancio le entità sino a quel momento discusse e ipotizzate o realizzate.
Significativa perché grazie alla sua dimensione, e con la sua articolazione, esce dal dibattito su chi preferire tra i cittadini e le imprese e da significativamente ai primi quanto un primo adeguato segnale alle seconde. E di fronte alle critiche sulla possibile insufficienza va detto che il coraggio di farla è stato un atto di fiducia nel confronti degli italiani prima di tutto, di credito nei confronti della nostra capacità di fidarci dei nostri mezzi. È un atto rappresentativo anche nelle scelte legate alla copertura, che introduce ex novo o rafforza precedenti decisioni nella direzione di un patto giusto tra lo Stato e i cittadini, per una amministrazione sobria e affidabile, in quest’ultimo caso in linea con le scelte di inizio legislatura. In questo senso la strada che percorriamo è quella di ricostruire un rapporto di fiducia con i cittadini, le imprese, le organizzazioni.
Ci si può fidare di più di uno Stato che interviene in maniera redistributiva, mettendo dei tetti agli stipendi dei propri vertici e aumentando quelli più bassi?
Ci si può fidare di più di un’amministrazione che interviene per riequilibrare i propri costi, riducendoli e lavorando per una maggiore efficienza?
Ci si può fidare di più di chi paga i propri debiti alle imprese, ed evita che se ne accumulino altri che uccidono quelle che si fidano dello Stato, che prova con la digitalizzazione ad introdurre maggiore trasparenza, e a far emergere chi rallenta, chi opera senza passione e senza impegno?
Si, ci si può fidare di più. E, chiedere di più, in termini di fiducia, di fiducia nel Paese e di fiducia in se stessi, di convinzione nei propri mezzi, lo si può chiedere a chi è rassegnato perché ne ha visto tante e a chi è scoraggiato dai tentativi inutili e sta pensando che non ne vale la pena, che magari è meglio lasciare tutto e andar via
Questo provvedimento è un invito a provarci, a restare nel Paese, ad insistere, anche quando i dati come quello della disoccupazione di ieri fanno paura, per quelli generali e per i dati del mezzogiorno, e nel mezzogiorno per i dati sui ragazzi e le ragazze. Ogni provvedimento, ogni scelta che facciamo è per loro, anche superando l’assuefazione ai numeri e alle percentuali che ormai ci travolge, ogni atto che faremo lo dobbiamo alle persone che stanno dietro a quei numeri. Che alternativa è dire che ci vorrebbe ben altro, legittimo, ma nessuno dice come farlo.
Voglio aggiungere poco a questa valutazione.
Intanto che il decreto viene modificato da un lavoro impegnativo di commissione che lo migliora.
Lo migliora nell’estensione ragionevole dei beneficiari, in direzione di un’equità più visibile, che non mancava nella volontà del Governo ma che è stata chiarita e rafforzata.
Lo migliora sul fronte del reperimento delle risorse, con un riequilibrio sui pilastri previdenziali che prelude ad un progetto di revisione che viene fissato a partire dal 2015 e che deve considerare ciò che nelle precedenti riforme è stato lasciato indietro, la previdenza dei giovani professionisti ad esempio.
Lo migliora con interventi sulla rateizzazione delle cartelle esattoriali nella direzione di dare una nuova occasione a chi è rimasto indietro non per sua volontà ma per le condizioni oggettive di un’economia locale dimagrita.
Lo migliora infine sul fronte della Rai, sul fronte dell’informazione regionale quanto della presunta svendita di Raiway.
Il decreto interveniva sul fronte di richiesta di una riduzione dei costi di tutte le partecipate nella misura del 2,5% nel 2014 e del 4% nel 2015 che colpiva la Rai, a cui si aggiungeva un ulteriore taglio di 150 milioni con la cancellazione di una organizzazione regionale definita.
In questa direzione si è chiarito innanzitutto che alla Rai si chiedeva, giustamente, un contributo al risanamento del Paese con un solo intervento e non sui due fronti, con un emendamento che rende esplicito questo fatto.
Poi c’è il fronte dell’informazione pubblica locale.
Su questo viene fatta salva la presenza in ogni regione di una redazione e di una presenza organizzata regionale, a tutela non dei singoli o di presunti potentati locali, ma, in un contesto economico fragile, dove il mercato locale dei media è pressoché inesistente, al contrario si eviti il rischio che la mancata presenza di un servizio informativo pubblica, permetta la nascita di monopoli locali dell’informazione privata.
La nostra posizione non è, ne è mai stata, dunque a protezione di fabbricati, di sedi principali o secondarie, che devono essere gestiti dalla dirigenza che è responsabile dell’economicità di un affitto quanto del compenso di un conduttore televisivo, ma a difesa dell’informazione pubblica locale, quella che garantisce poi la libertà dei cittadini e delle loro istituzioni.
Infine Raiway. Nel merito si esclude la possibilità che si possano vendere quote strategiche che ne possano condizionare la proprietà. Ma la presunta vendita di Raiway, la cui ipotesi è precedente a questo provvedimento, nasconde nel fondo la discussione sulla prospettiva della funzione della Rai, come azienda e come servizio pubblico.
Io penso che queste modifiche abbiano ricreato le condizioni di un contesto nel quale discutere e decidere serenamente di come disegnare la Rai e il servizio pubblico dei prossimi 10 anni, di fronte al cambiamento profondo del sistema informativo, di come scrivere il nuovo contratto di servizio pubblico in prima della scadenza di quello attuale e che si possa sospendere, sedendosi ad un tavolo, lo sciopero convocato.
Al Parlamento il compito di discutere di questo, senza lasciare al solo Governo né la patata bollente di una decisione né l’impostazione di una funzione che non è al servizio di una maggioranza ma del Paese nel suo insieme, cogliendo l’occasione per metterla al sicuro dal ripetersi di contesti come quelli degli ultimi 20 anni, con concentrazioni informative inaccettabili, se fossero ripetibili.
Ho preso un tempo maggiore sul tema della Rai non perché fosse centrale nel decreto, ma perché significativo del tempo di cambiamento che attraversiamo e delle sfide che dobbiamo raccogliere per metterci in sintonia con la gran parte del Paese che ha scelto di votarci, perché è per questo, non per 80 euro al mese che hanno dato il consenso al Pd.
Silvio Lai. Intervento in aula nel dibattito generale sul DL Irpef, 4 giugno 2014
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